di Ivo Invernizzi
In questo periodo sia in Europea sia negli USA è in corso un dibattito acceso sull’importanza dell’inflazione.
La tesi di fondo di alcune autorevoli banche centrali pare essere che l’inflazione si contraddistingua per la sua presunta ‘transitorietà’ (cioè sulla durata nel mero breve termine nell’impennata dei prezzi) tesi peraltro spesso non condivisa dai mercati finanziari, soprattutto alla luce del recente incremento generalizzato nei prezzi delle materie prime e del conseguente aumento dei tassi e dell’irripidimento nelle curve dei rendimenti di alcuni titoli governativi ‘core’.
Se concentriamo il focus sull’operato in termini di politica monetaria della BCE ci sono alcune considerazioni importanti che vogliamo sottoporre all’attenzione del lettore:
- alcuni esponenti del Governing Council BCE hanno invocato una riduzione negli acquisti ‘straordinari’ di asset (quelli afferenti il famoso programma straordinario pandemico PEPP);
- i verbali dell’ultima riunione BCE di settembre parlano chiaro: l’inflazione è a rischio rialzo ben al di sopra del fatidico target BCE 2%;
- l’inflazione europea ha toccato e superato il suo picco decennale, fattore che potrebbe inficiare la bontà delle troppo ottimistiche proiezioni sui prezzi proposte dalla BCE (incremento atteso nei prezzi troppo contenuto).
Ci sono almeno 4 elementi importanti (ma non sono tutti) a influire sull’incremento dei prezzi:
- l’aumento nel costo delle materie prime;
- l’aumento del prezzo del petrolio;
- l’aumento del costo dell’energia;
- l’esistenza di shortages (riduzioni) nelle scorte di materie prime e semilavorati anche imputabile ai cosiddetti ‘colli di bottiglia’ o bottlenecks nelle forniture.
In Europa influisce inoltre l’incognita dell’aumento generalizzato nei prezzi degli immobili.
Se d’altro lato concentriamo il nostro focus sulla politica monetaria della Fed, anche nel caso statunitense la banca centrale pare propugnare la tesi della transitorietà d’inflazione ma con un occhio più attento e desideroso del cosiddetto tapering (riduzione negli acquisti di obbligazioni da parte della banca centrale sui mercati finanziari) e alla sua più rapida implementazione rispetto ai più cauti ‘cugini’ d’oltreoceano.
Negli States lo scenario di inflazione sta incidendo negativamente sulla domanda per consumi. Qualche esperto parla addirittura dello spettro di ‘stagflazione’, ovvero della circostanza in cui la stagnazione economica si accompagni all’inflazione. Si ravvisano due fenomeni:
- l’effetto deleterio dell’ erosione nel potere di acquisto di percettori di reddito fisso da lavoro dipendente con conseguente variazione nei redditi reali (redditi nominali ‘nettati’ dell’effetto inflazione) irrisoria.
- Se da un lato è certamente vero che i prezzi aumentano a causa dell’aumento della domanda al consumo (inflazione da domanda) si è anche registrata una riduzione nella domanda visibile nel calo della spesa personale rettificata dall’incidenza dell’inflazione (spesa reale). Soprattutto, è stata la velocità repentina nell’aumento dei prezzi a incidere sul calo della domanda retail.
Noi di AnalisiBanka introduciamo una semplice considerazione intuitiva ovvero che: le banche centrali paiono essere dell’idea che ‘domanda e offerta alla fine si incontreranno, quindi l’inflazione nel breve termine sarà tecnicamente transitoria. Negli Stati Uniti, l’aumento del costo del lavoro pare tuttavia confutare questa tesi: sul mercato delle professioni si stanno già verificando sostanziali incrementi salariali, che potrebbero gonfiare il costo di molti prodotti finiti e semilavorati in modo permanente e non transitorio (inflazione da costi). Inoltre, gli ultimi dati sull’occupazione pubblicati negli States l’8 ottobre 2021 non sono edificanti: in settembre i nuovi posti di lavoro creati sono stati solo 194,000 contro attese degli analisti pari a 500,000. Ricordiamo inoltre che, le vendite all’ingrosso mese su mese in agosto sono calate dell’1.1%.