FINTECH fenomeno in evoluzione – Novembre 2022
Autore: dr. MELECCHI Gianluca socio Associazione AnalisiBanka APS
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- La finanziarizzazione dell’economia e l’abuso del debito.
A partire dagli anni ’70 inizia il predominio della finanza sulla produzione sino a poter affermare, già dai primi anni ’80, che che da un modello di un’economia industriale si è transitati verso un sempre più marcato industrialismo finanziario, in cui il plus-valore viene estratto esternamente dai processi produttivi[1], per essere reinvestito nei mercati finanziari che, con il loro progressivo sviluppo, favorito anche da operazioni ad alto rischio per un forte ricorso al debito, promettevano (e permettevano) maggiori e più rapidi realizzi rispetto a un reinvestimento dei profitti nell’economia industriale (a scapito dell’occupazione, dei salari e quindi della domanda aggregata).
In assenza di una regolamentazione volta a preservare la solidità e la stabilità degli intermediari bancari e finanziari, il sistema inizia a sbilanciarsi pericolosamente verso il debito a scapito del capitale di rischio, in forza anche delle favorevoli politiche monetarie espansionistiche volte a sostenere un sistema produttivo indebolito ed accentrato sui scambi infrasettoriali che, seppur con mutata veste, continua ad essere il volano della creazione di ricchezza (denaro da denaro, derivante dagli scambi, che pertanto devono essere massimizzati). In poco tempo la pervasività dei mercati finanziari e la distorsione creata tra i tassi nominali e i tassi reali, nonché l’abuso del debito e una sopravvalutazione degli attivi, posero sotto forti tensioni la stabilità del sistema che finì per implodere nei mercati dagli asset rischiosi (o tossici – la crisi dei i sub prime nel 2007).
- La crisi finanziaria e gli opportuni interventi regolamentari
La connessione sistemica e globale dei mercati e l’interconnessione con l’industria, in rapporto sempre più ancillare verso i primi[2], hanno determinato anche in Europa forti turbolenze. Tra il 2011 e il 2017, per effetto della crisi del debito sovrano, che ha comportato una severissima selezione delle imprese, la leva finanziaria delle aziende italiane è diminuita di dieci punti percentuali, e ciò principalmente per i seguenti motivi:
i.) In massima parte per l’uscita dal mercato delle imprese con una struttura finanziaria fragile;
ii.) Per una minor frazione grazie all’aumento del capitale di rischio;
iii.) La parte residua per la riduzione dell’indebitamento, poiché favorita da un contesto con minor competitor e da incentivi di finanza pubblica che i vari Stati hanno varato.
L’Unione Europea, nel contempo, è alle prese con la realizzazione del Market Capital Union e con il completamento dell’Union Banking System, programmi volti a garantire un sistema finanziario e bancario unico, stabile e solido; mission che ha inevitabilmente comportato una regolamentazione sempre più stringente in capo agli istituti bancari e una normativa sempre più semplificata per il mercato dei capitali (con particolare riferimento ai mercati OTC), in modo da riequilibrare il rapporto tra capitale di rischio e capitale di debito nella struttura delle fonti di finanziamento delle imprese d’Eurosistema.
Ciò nonostante, queste politiche hanno provocato una rapida erosione della marginalità del sistema bancario, nonché ingenti svalutazioni dei suoi asset, che hanno inasprito e deteriorato il rapporto banca-impresa anche per un probabile innesco di prociclicità nel sistema finanziario, che in fase recessiva non poteva più offrire un pieno supporto al credito per le PMI.
La numerosa e frammentaria nuova regolamentazione, che in Italia è stata valutata, approfondita ed attuata solo nell’imminenza della sua entrata in vigore, ha provocato un effetto entropico e comportamenti disfunzionali sia per il sistema bancario, sia per le imprese:
- Lato banca: la necessità di adeguare processi e procedure, imposti o raccomandati da EBA ed ESMA, sostanzialmente per motivi di delevereging e derisking, la cui applicazione nella realtà italiana, caratterizzata da banche piccole e da piccole imprese, ha enormemente rallentato la diffusione della conoscenza della normativa e l’aggiornamento dei software degli istituti di credito, appesantendone l’operatività nelle filiali retail e mid-corporate. Ciò che ha (e) penalizza sia le micro e piccole aziende sotto il profilo dell’accesso al credito ( infra), sia le banche per il nuovo regime contabile e regolamentare che impone ingenti accantonamenti per le posizioni di rischio in riferimento alla novellata classificazione dei crediti deteriorati e per le richieste di maggiori riserve a titolo di capitale di vigilanza primario (Tier 1) e del suo rapporto con gli impieghi ponderati per il rischio (Common Equity Tier 1 o CET 1).
Di seguito i principali interventi regolamentari e le date di prima applicazione.
- Basilea III (2010; operativo 2013)
- Nuova classificazione dei crediti deteriorati (Implementing Technical Standard dell’EBA – European Banking Autority in materia di forbearance measure e forborne exposure, operativo dal 2015)
- Emanazione da parte dello IASB del principio contabile IFRS 9 (operativo dal 2018, la cui applicazione ha sostituito l’incurred loss approach con l’expected loss approach (Ecl) che per gli intermediari finanziari ha comportato la necessità di strutturare il Credit Risk Managament sviluppando modelli di rating interni IRB, focalizzati sul tema della variabilità degli Attivi nderati per il Rischio (Risk Weighted Asset o RWA) per la salvaguardia del patrimonio di vigilanza[3]
- Lato impresa: le PMI, costituenti oltre il 95% delle imprese italiane (contro uno 0,09% delle grandi imprese), si trovano: eccessivamente dipendenti verso il sistema bancario, sottopatrimonializzate, con ricavi e marginalità in calo per effetto della crisi geopolitica, economica e monetaria in atto, con conseguente difficoltà all’accesso al credito.
La corposa emanazione normativa ha ridefinito radicalmente le regole per l’accesso al credito, in maniera così profonda da produrre confusione e inefficace comunicazione ai consulenti, alle imprese e ai funzionari e operatori degli stessi istituti di credito.
La digitalizzazione dell’economia e l’interconnessione dei segmenti di mercato (marketplace intesi come sottoinsiemi di un mercato globale in cui i confini fisici vengono azzerati) hanno sviluppato un doppio binario:
- Le imprese tradizionali che: ) non hanno fatto investimenti per la transizione all’economia 4.0 che rischiano di uscire dal mercato; ii.) hanno fatto l’investimento sbagliato con conseguente uscita dal mercato; iii.) hanno fatto, o sono in procinto di fare, l’investimento giusto (le uniche che competeranno con le start-up full digital cibernetiche o meccatroniche di natura industriale non finanziaria e le FinTech)
- Le start-up industriali digital o full digital non finanziarie che hanno saputo usufruire degli strumenti di approvvigionamento del capitale alternativi al credito bancario (crowdfunding, bandi di finanza pubblica nazionale o EU, seed capital e altre forme) e quelle early stage che hanno realizzato accordi di JV o di rete, o che hanno aperto il capitale ai fondi di venture capital, con ciò potendo in brevissimo tempo sottrarre ingenti quote di mercato alle aziende tradizionali rimaste ancorate a modelli di business superati e che inoltre presentano le criticità (solite e) tipiche delle PMI, quali:
- Scarsa e opaca informativa finanziaria
- Errato utilizzo delle forme tecniche di finanziamento (con impatto negativo sullo score andamentale), eccessivo ricorso al debito bancario, generale sottocapitalizzazione e insufficiente autofinanziamento, spesso per effetto di uno scarso presidio del capitale circolante (con impatto negativo sullo score economico finanziario)
- Assenza di modelli di corporate governance spesso dovuti alla coincidenza tra proprietà e management
- Limitato utilizzo di sistemi di pianificazione e controllo
- Carenti sistemi di budgeting e spesso mancata redazione di business plan strategici con orizzonte temporale triennale o quinquennale.
L’inefficace comunicazione e l’eccessiva proliferazione normativa (frammentaria e a tratti divergente in EU) hanno ritardato l’adeguamento delle imprese alle nuove regole, così precludendo un coretto rapporto banca impresa, che nei fatti si traduce in uno scorretto utilizzo delle forme tecniche, nella riduzione delle linee accordate e nei casi peggiori nella perdita dei requisiti per accedere al capitale per lo sviluppo sotto qualsiasi forma, ivi compreso i canali FinTech.
La combinazione dei seguenti fattori che di seguito, per semplicità espositiva, vengono elencati per punti:
- una situazione congiunturale, se non strutturale debole tendente alla stagnazione;
ii.) un progressivo irrigidimento regolamentare sugli intermediari del credito e della finanza;
iii.) uno sviluppo rapidissimo della tecnologia, specie nel campo digitale, delle telecomunicazioni e della cibernetica;
hanno probabilmente indotto le autorità a decidere per un alleggerimento regolamentare di alcune forme di intermediazione creditizia e finanziaria – da riservare a nuovi operatori privati – al fine di accelerare i processi e le esigenze delle aziende in fase di transizione e di quelle native nella nuova economia digitale 4.0.
Con il “FinTech action plan: For a more competitive and innovative European financial sector”[4] emanato nel 2018 viene recepita in Italia la Seconda Direttiva sui Servizi di Pagamento (PSD2) che impone alle banche di aprire l’infrastruttura di conti e dei dati (API) ad operatori terzi (TTP) autorizzati. La combinazione tra l’evoluzione informatica e tecnologica e l’ingresso di nuovi operatori in concorrenza tra loro ha dato origine a una forma di regolamentazione diversificata dell’intermediazione bancaria e finanziaria che trova ora la sua massima rappresentazione nell’Open Banking.
- Le applicazioni FinTech
Si possono ricomprendere nell’alveo del FinTech tutte le applicazioni informatiche inerenti al risparmio, all’investimento, ai servizi di pagamento nonché alla gestione dei rischi del sistema bancario, finanziario e assicurativo.
I motivi principali del forte sviluppo dell’industria FinTech, che in questa prima fase sembra in apparente concorrenza[5] con l’industria finanziaria tradizionale, sono da attribuire ai due motivi che seguono:
i.) l’utilizzo di nuovi modelli di business tecnologico e di servizi che permettono un migliore e più semplice utilizzo del servizio da parte dei clienti (user experience);
ii.) una fortissima riduzione dei costi operativi, logistici e del personale.
Non tutto è oro, però, quello che luccica. Infatti, se è vero che gli intermediari FinTech possono contare su modelli di business dai costi estremamente ridotti, è vero anche che l’approvvigionamento del denaro per il comparto FinTech avviene a costi di mercato, diversamente da quanto permesso agli intermediari tradizionali. Per chiarire: nel caso degli intermediari bancari tradizionali avviene al costo stabilito dalle Banche Centrali, mentre per quelli FinTech è commisurato alla remunerazione promessa (o stabilita) agli investitori nella piattaforma, tasso che certamente non è paragonabile a quello interbancario.
Tutto ciò rende, di fatto, il canale FinTech ancora troppo oneroso rispetto a quello tradizionale; tuttavia, offre significativi vantaggi alle aziende che lo utilizzano:
- Velocità d’erogazione
- Soluzioni di smobilizzo del credito più flessibili e immediate
- Possibilità di verificare tutte le forme tecniche, gli accordati e gli utilizzati, i servizi di investimento o di pagamento, di tutti gli intermediari creditizi e non, in un unico set informativo, eventualmente integrato con l’ERP aziendale o con il programma di pianificazione, controllo di gestione e tesoriera
- Altri vantaggi correlati alla interconnessione tra le piattaforme datali tramite API o protocolli open source
Le aziende FinTech sono attive nei seguenti principali settori:
- Money management
- Wealth e asset management
- Capital marketing e trading
- Peer to Peer lending
- Equity o Lending crowdfunding
- Ambito assicurativo
- Ambito regolatorio
- Ambito della sicurezza
Possibile evoluzione del fenomeno FinTech.
I fattori critici di successo o i key value driver delle due tipologie di intermediari sono sostanzialmente tre:
- Il costo del denaro.
Come già osservato gli intermediari tradizionali possono approvvigionarsi del denaro presso una banca centrale a un tasso significativamente inferiore rispetto agli intermediari FinTech che operano nel credito. Questi ultimi debbono infatti remunerare il capitale raccolto (fundraising) con un premio al rischio che incorpora la probabilità di default dei prestiti concessi a soggetti generalmente non “bancabili”. Da ciò ne deriva che sopravviveranno gli intermediari FinTech che pur offrendo provvista maggiormente onerosa riusciranno a erogare le somme richieste e concesse in tempi rapidissimi oltre a offrire altri servizi come la raccolta di tutte le informazioni in tempo reale sull’interbancario che attraverso API potrebbe connettersi con il gestionale aziendale. Diversamente potranno integrarsi con gli intermediari tradizionali con accordi di partnership che prevedono un sistema di cartolarizzazione e gestione degli NPL o magari degli UTP prima che diventino NPL per evitare gli accantonamenti per le posizioni a sofferenza.
- I costi operativi.
Lo spread reale tra il TEG di un prestito o di un’altra forma tecnica che preveda la fornitura di fonti finanziarie fresche alle imprese forse non è così ampio come lo si potrebbe interpretare facendo una semplice sottrazione (dei TEG). La tempistica di erogazione può tradursi in valore industriale per l’evasione di un ordine o per l’acquisto di un macchinario innovativo o molto più intuitivamente per entrare nella digital economy attraverso operatori FinTech.
Sino ad ora il ragionamento si è concentrato sulla differenza dei due business model nel settore creditizio, ma le FinTech che operano nei servizi di pagamento possono tranquillamente competere con canali più strutturati stand alone oppure offrirsi come operatore outsourcer per gli intermediari tradizionali, agendo come service in cambio di interchange fees.
- La natività full digital.
Last but not least, la natività full digital permette di realizzare piattaforme con codice sorgente nativo e architettato per quell’uso, senza sovrapposizioni di software, middleware o altre interfacce di collegamento che invece necessitano gli intermediari tradizionali. Ciò a beneficio della sicurezza, dell’affidabilità e della flessibilità.
- Conclusioni
L’integrazione con la digital economy (industria 4.0)
L’utilizzo dei canali FinTech, oltre a risultare una importante forma di diversificazione delle fonti finanziarie, permette all’impresa tradizionale di avvicinarsi alla trasformazione del suo business model verso i modelli digitali, interconnessi e integrati dell’industria 4.0. Siamo agli albori e presto le autorità regoleranno le criptovalute di stato e private, sistemi di trading, marketplace con emissione di propria moneta, e molto altro ancora. Con un movimento della retina o con un comando vocale sarà possibile acquistare un prodotto o vivere una esperienza immersiva o effettuare transazioni in tutto il mondo. È mia opinione che le PMI italiane si attivino per conoscere e per utilizzare i sistemi e le tecnologie che ormai hanno segnato la nuova rivoluzione industriale. Se Henry Ford avesse condotto una ricerca di mercato sul numero di carrozze vendute e su quelle che avrebbe potuto vendere, il motore a scoppio e le automobili esisterebbero ma non sapremmo nulla di Henry Ford (vale a dire: o si investe per integrarsi nella digital economy o si esce dal mercato, tertium non datur)
Questo piò avvenire, anche, tramite i servizi offerti da:
- Società di Data Management, CRM, Big Data e Artifical Intelligence
- Società che sviluppano tecnologie API, Blockchain o DLT
- Società di Cyber Security
La gestione della nuova finanza proveniente dai canali FinTech può essere convogliata in investimenti in software di e-commerce, di intelligenza artificiale, di CRM, di sistemi di controllo di gestione della tesoreria full integrated e di altre soluzioni che permettano una pronta, rapida e scalabile interconnessione digitale tra i vari marketplace allo scopo di evitare l’esclusione dal mercato 4.0.
L’interconnettività delle piattaforme e l’utilizzo sempre più immediato, semplificato e pervasivo dei sistemi integrati sofware, hardware e uomo, ovvero l’Internet of the Things (IoT) ritengo porrà le basi per una ridefinizione del concetto di Moneta, di Valore, di Lavoro e di Reddito.
Riflessione epistemologica
Già negli anni ‘30 Heidegger riflette sul fatto che il nostro mondo si concentra su un principio sempre più globale: quello della utilizzabilità. L’utilizzabilità delle invenzioni, delle applicazioni della ricerca e della tecnica; tuttavia, se da un lato la tecnica può essere intesa come scoperta delle leggi della natura, dall’altro discende che siamo tutti ormai piccoli funzionari della tecnica stessa così definendo la fine dell’umanesimo. Heidegger sostiene, inoltre, che a crear sgomento non sia solo che tutto si traduca in un complesso sistema tecnologico, ma che non vi sia più la consapevolezza che ciò stia accadendo.
Concludo la presente breve analisi con il richiamo dei capisaldi delle due scuole economiche prevalenti del secolo passato – entrambe quanto mai degne di approfondimento – per via della loro rappresentatività di quanto sta avvenendo in merito al cambiamento degli stili di vita, del concetto di Tempo come Valore e della Teoria Economica e Sociale del Valore nella sua Globalità.
i.) La scuola austriaca, liberista e libertista, teorizzata principalmente da Friedrich von Hayek e Ludwig von Mises. Uno dei punti cardine della scuola austriaca è il laissez-faire e la protezione della proprietà privata. Con il primo, si vuole minimizzare l’intervento statale nell’economia mentre il secondo si inquadra nell’ideologia individualista del movimento. Secondo questa scuola la bontà delle teorie deve essere misurata secondo la propria efficacia (prasseologia), ovvero si deve chiedere se l’attuazione di una politica produrrebbe gli effetti voluti anziché domandarsi se sia giusto applicarla.
ii.) La scuola keynesiana, che sempre attorno agli anni ‘20-‘30 teorizza un modello economico in forte contrasto rispetto alla scuola neoclassica, in massima parte riguardo alle scelte di politica economica monetaria. Questa Scuola all’opposto di quella Austriaca presuppone la necessità dell’intervento dello stato sull’economia da parte di autorità pubbliche che attuino politiche di investimento e manovre monetarie per garantire la stabilità e l’efficienza dei mercati.[6]
Non poteva inoltre mancare una citazione di J.M Kyenes. che anche per il contesto Fintech appare decisamente appropriata:
“Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non mantiene le promesse. In breve, non ci piace e stiamo iniziando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi.”
[1] Che in tal modo da presupposto per la creazione del valore diventano il pretesto (ovvero il sottostante necessario per la realizzazione di scambi monetari che molto spesso sono fini a sé stessi come gli scambi infra-settoriali).
[2] Nel tessuto industriale italiano questo effetto è minore; maggiore è invece la dipendenza delle imprese verso il sistema bancario.
[3] È parer mio che il combinato disposto delle regole di Basel III e dell’applicazione dell’IFRS 9 in un contesto dove l’Ecl viene frequentemente rivisto con nuovi framework regolamentari, opinion della Bce e guidelines dell’Eba, che non sempre implicano metodologie operative dello standard setter contabile, presenti elementi di prociclicità nelle fasi recessive dell’economia, diminuendo l’attività di supporto al tessuto industriale in difficoltà e sfavorendo l’iniziativa privata – in breve la rigida regolamentazione emanata per favorire la solidità e la liquidità degli intermediari si rivelai inefficace per la stabilità del sistema economico.
[4] Fonte: Directorate-General for Financial Stability, Financial Services and Capital Markets Union 8 marzo 2018 – https://ec.europa.eu/info/departments/financial-stability-financial-services-and-capital-markets-union_en
[5] Ad avviso di chi scrive si tratta solo di una iniziale ed apparente concorrenza; esistono già efficacissime partnership e sempre di nuove se ne faranno, perché nel prossimo futuro i due modelli si integreranno con effetti sinergici e complementari. Tale previsione ha come assunzione, per poter verificarsi, che gli intermediari tradizionali investano per interfacciarsi e per abilitare determinate soluzioni, destrutturando allo stesso tempo i loro pesanti modelli distributivi ancora per poco apprezzati e forse già antieconomici per la clientela che ne fa uso.
[6] Keynes sostenne che si sarebbe potuta evitare la crisi del ’29 qualora lo Stato fosse intervenuto con pesanti manovre di investimento pubblico