di Salvatore Carrano*
In data 11 gennaio 2017, Carlo Festa e Fabio Pavesi, sul Sole 24 ore, così scrivono:
“Nella lista nera dei grandi debitori morosi, che hanno affossato Mps portandola a cumulare 47 miliardi di prestiti malati, ci sono nomi eccellenti dell’Italia che conta”.
L’articolo, https://www.ilsole24ore.com/art/ecco-lista-grandi-debitori-insolventi-mps-ADI10OUC , continua elencando nomi e società che hanno contribuito pesantemente a trasformare una Banca, un tempo vanto della Nazione, in un ammasso di crediti presumibilmente inesigibili: 47 miliardi, appunto.
Navigando in rete, e digitando su un motore di ricerca “chi ha rovinato MPS”, compaiono già dal 2013 decine di articoli che citano società, risultate poi inadempienti, finanziate dalla banca di piazza Salimbeni.
Tutto sembrerebbe far pensare che siano stati concessi dei finanziamenti senza le canoniche indagini (attenta analisi di bilancio per indici e per flussi, accurata verifica dell’attendibilità sui valori dichiarati dall’azienda che ha presentato la richiesta del fido, merito di credito, livello d’indebitamento, controllo del rischio di credito), ed è verosimile che i criteri adottati per la concessione del prestito non siano stati quelli classici, abituali ma altri: blandi, accomodanti, elastici e modellati al richiedente dagli amministratori. Comunque, non è nelle intenzioni di questa pubblicazione confermare o integrare la lista delle aziende finanziate da MPS, una in più, una in meno, cosa cambia? Né tanto meno mi preme fare una distinzione di parte politica colpevole o di settore d’impresa inadempiente, anche perché nell’articolo sopra citato, continuando, si può leggere: “Dai grandi imprenditori, agli immobiliaristi, al sistema delle coop rosse fino alla giungla delle partecipate pubbliche della Toscana. Il parterre è ecumenico sul piano politico. Centro-sinistra, Centro-destra pari sono”.
Quello che invece vorrei rimarcare e avvalorare è la frase successiva di Festa e Pavesi: “Del resto per una banca guidata per decenni da una Fondazione espressione della politica era quasi naturale l’arma del credito come strumento di consenso e di scambio”, riportata sempre nel pezzo di cronaca economica e finanziaria menzionato. Credo di capire che nelle intenzioni degli autori ci fosse la volontà di addebitare a una rovinosa gestione clientelare, permessa da una legge che consentiva alle Fondazioni di esercitare il controllo sull’impresa bancaria conferitaria, le avversità di bilancio di MPS. Non ho la possibilità di verificare ulteriormente questa mia interpretazione perché nell’articolo non c’è altro al riguardo e la parola Fondazione non viene più riportata. Poco importa, comunque, perché l’intento di questo scritto è proprio di dimostrare la fondatezza della supposizione citata avvalendomi di una mia pubblicazione https://www.sepenso.it/genesi-normativa-e-stato-attuale-delle-fondazioni-di-origine-bancaria/ del 2017, che descrive il vissuto, dalla nascita e fino alla data del documento, delle Fondazioni di origine bancaria.
“C’è chi considera le Fondazioni, enti privati e senza fini di lucro, di grande aiuto alla crescita sociale, economica e culturale del territorio in cui operano. Alcuni, però (e non sono pochi) ritengono che le Fondazioni siano nate soprattutto per esercitare il controllo sulle società bancarie che esse stesse hanno partorito. Per questi soggetti le Fondazioni sono (state) principalmente un “mostro giuridico” concepito dal potere politico col fine di conservare saldamente il controllo sulle istituzioni bancarie. Le Fondazioni hanno, fin dalla loro comparsa, diviso le opinioni sulle loro effettive finalità unicamente filantropiche. E, d’altronde, l’originaria normativa, che affidava obbligatoriamente all’ente conferente il totale controllo della banca sottostante, lascia facilmente intendere che le Fondazioni erano state create per renderle proprietarie del loro stesso artificioso concepimento”.
È “la legge Amato-Carli (L. 218/90 e D.Lgs. 356/90) che segnò la comparsa delle Fondazioni di origine bancaria e permise alle Casse di Risparmio, ai Monti di Credito su Pegno e agli Istituti di credito di diritto pubblico senza fondo di dotazione a composizione associativa, di conferire l’azienda bancaria alla società per azioni conferitaria e ricevere in cambio azioni per un valore commisurato allo stesso conferimento. L’ente originario conferente, continuava a esistere come Fondazione e, oltre a esercitare il controllo totale sulla società per azioni che svolgeva l’attività bancaria, perseguiva scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico”.
“Le società per azioni che svolgevano l’attività d’intermediazione creditizia, potevano aprirsi ai capitali privati e lentamente svincolarsi dal controllo pubblico. In realtà la legge Amato-Carli garantiva scarsa autonomia gestionale alle S.p.A. partecipate in quanto la governance della conferente controllante (la Fondazione) era composta prevalentemente da soci scelti tra rappresentanti e amministratori di enti pubblici. Né, tanto meno, con questa prima legge sulle Fondazioni si realizzò quella tanto sbandierata privatizzazione perché, se era pur vero che l’attività bancaria era svolta da una società di capitali, quest’ultima era controllata dall’ente originario conferente che ne possedeva la totalità delle azioni”.
“Il permanere del controllo pubblico non rappresentava, per le S.p.A. che svolgevano attività bancaria, certamente un’opportunità utile a perseguire obiettivi finalizzati alla massimizzazione dei profitti. Quei criteri di nomina nei consigli di amministrazione delle Fondazioni controllanti poco meritocratici e spesso rispondenti a logiche di mera spartizione delle cariche, fungevano piuttosto da freno per l’attuazione di strategie mirate all’ottimizzazione dei costi e alla crescita dimensionale. Con il d.l. 31/05/94, convertito in legge nel successivo luglio, il legislatore, abolendo la norma che attribuiva alle Fondazioni la maggioranza di voto nelle assemblee delle S.p.A. conferitarie, evidentemente già si proponeva di compiere un ulteriore passo verso la reale privatizzazione. E successivamente, l’allora ministro del Tesoro, Lamberto Dini, volle incentivare la dismissione delle partecipazioni offrendo la detassazione delle plusvalenze alle Fondazioni che, nell’arco dei cinque anni successivi all’emanazione della direttiva avvenuta il 18/11/94, avessero ridotto la quota di partecipazione nella S.p.A. conferitaria a un ammontare inferiore o uguale al 50%. Tuttavia, forse perché la direttiva in quanto tale non rappresentava un’imposizione, o anche perché il provvedimento conteneva norme eccessivamente rigide sia per la dismissione delle partecipazioni e sia per l’impiego dei proventi realizzati, pochi enti si avvalsero dell’incentivo offerto per ridurre la quota azionaria e le Fondazioni continuarono ad avere il totale controllo delle S.p.A. conferitarie”.
“Seguì la Legge Ciampi (L. 461/98 e D.Lgs. 153/99) che avrebbe dovuto consentire alle S.p.A. conferitarie, di poter esercitare l’attività bancaria perseguendo principalmente quegli obiettivi tipici delle aziende private e consistenti nel miglioramento dell’efficienza operativa finalizzate all’incremento dei margini di profitto. Ma nonostante la legge Ciampi contenesse disposizioni che avrebbero dovuto assegnare piena autonomia gestionale alle società bancarie partecipate rendendole indipendenti dalle Fondazioni, l’ente conferente continuava a esercitare un marcato peso decisionale, diretto o indiretto, sulle conferitarie. Probabilmente, la posticipazione dell’obbligo della dismissione del pacchetto di maggioranza previsto entro i quattro anni successivi, non dimissionava le Fondazioni dal controllo (diretto) delle conferitarie. Così pure, la possibilità (o comunque il mancato divieto) di poter nominare dei membri del proprio Consiglio di amministrazione negli organi di governo delle banche partecipate, permetteva alle Fondazioni di conservarne il controllo (indiretto) ”.
Di fatto, “le Fondazioni per oltre un ventennio sono state il governo delle banche”, poi, alla fine, il distacco dalle proprie conferitarie è avvenuto, e “ormai le partecipazioni dirette nelle S.p.A. sottostanti, detenute dalle Fondazioni, sono marginali, espressamente minoritarie e addirittura, in diversi casi, nulle o irrisorie per affermare che le Fondazioni siano enti che ingeriscono nella gestione delle società bancarie”. È anche avvenuto, però, che qualche banca, dapprima tra le più sane e prospere del Paese, utilizzata dal potere politico (attraverso le Fondazioni) “come strumento di consenso e di scambio”, ora produca solo perdite, soffra di crediti deteriorati, lamenti esuberi di personale e si possa risanare (con la cessione a un gruppo bancario) solo con l’intervento dello Stato offrendo un sostanzioso indennizzo all’acquirente.
Il processo di privatizzazione, è vero, può considerarsi concluso, ma è stata una conquista che ha richiesto più anni del necessario e qualche vittima sacrificale di troppo ha sollevato dubbi e ripensamenti sulla necessità e sui benefici del processo di rinnovamento del sistema creditizio nazionale. Va anche detto che le norme della vecchia riforma bancaria del 1936 erano certamente inadeguate e non consentivano alle banche italiane di aumentare la patrimonializzazione e nemmeno favorivano l’accrescimento dimensionale per reggere il confronto con le concorrenti aziende creditizie europee sul mercato unico bancario. Ecco perché la trasformazione delle banche pubbliche in società di capitali è stata una scelta giusta e inevitabile. Se anche il prezzo della privatizzazione preteso dalla politica per rinunciare al controllo delle banche pubbliche, fosse stato meno esoso e le Fondazioni avessero saputo resistere alla tentazione di esercitare per troppo tempo e con troppa avidità l’egocentrica tutela di imprese che invece avrebbero dovuto operare in completa autonomia già da subito dopo la loro creazione, allora alla banca toscana sarebbe stata risparmiata una sorte così miseranda.
23 dicembre 2021
Salvatore Carrano
*Docente di Economia Aziendale