28 feb 2018
Autore: prof. CARRANO Salvatore
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All’incirca un mese fa, Chris Larsen, con un patrimonio di 59 miliardi di dollari, era il quinto uomo più ricco del mondo. Chris Larsen possiede 5,19 miliardi di ripple e il 17% delle azioni dell’omonima società di cui è presidente e, insieme a Jed McCaleb, cofondatore. Il quattro gennaio scorso, la valuta ripple (XRP) ha raggiunto il massimo storico svettando a 3,84 dollari; da quel giorno il valore della quotazione è crollato e oggi per comprare un ripple basta meno di un dollaro. Se però negli ultimi due mesi ripple ha perso circa i tre quarti del valore, l’arretramento, seppure consistente, è ben poca cosa rispetto alla prestazione record che dall’inizio 2017 aveva portato la quotazione del coin da 0,006 ai 3,84 dollari del picco massimo raggiunto a inizio gennaio scorso. Ora Chris Larsen non figura più tra i primissimi paperoni del mondo ma possiede pur sempre un patrimonio da fare invidia e la sua ricchezza è originata unicamente da una criptovaluta da lui stesso creata e immessa sul mercato. Ripple è una valuta digitale ed è la terza per capitalizzazione di mercato dopo bitcoin ed ethereum. Al momento della nascita ne è stato creato l’intero ammontare consistente in 100 miliardi di unità. Come da protocollo, la quantità non potrà essere aumentata ed è, anzi, destinata al decremento poiché per ogni transazione ne viene distrutta una parte seppure infinitesimale. Ripple, inoltre, non può essere minata, ed è quindi una valuta centralizzata che si può solo comprare. La valuta XRP è perfino “ecologica” perché l’emissione non comporta quell’enorme dispendio di energia necessario al funzionamento della sofisticata e costosa attrezzatura dei miners.
In verità ripple non è solo una moneta digitale ma è anche, o soprattutto, un protocollo internet che consente di trasferire qualsiasi valore su di una rete distribuita. È paragonabile ai protocolli HTTP o SMTP utilizzati per lo scambio di informazioni e messaggi che possono essere utilizzati senza servirsi di una rete proprietaria e indipendentemente dal doversi trovare in un determinato posto. “Qualsiasi banca, da e per qualunque nazione e per ogni tipo di valuta”: è questa la promessa che l’omonima azienda offre a chi deciderà di aderire al protocollo ripple per inviare pagamenti. E questa promessa d’altronde coincide con la funzione tipica del protocollo informatico che in una delle definizioni più comuni è “l’insieme coordinato di regole che consente di scambiarsi rapidamente dati (pagamenti) e messaggi”.
Curiosando in rete non è difficile trovare pareri entusiastici sul futuro della criptomoneta XRP e, quasi sempre, i punti a suo favore derivano dalle potenzialità di utilizzo come conveniente valuta intermediaria negli scambi servendosi della stessa tecnologia Ripple. Per contro, l’enorme quantità di moneta creata (100 miliardi) rispetto ai 21 milioni di bitcoin, è un punto di forza per quanti ritengono che la valuta non possa apprezzasi tanto da raggiungere valori prossimi alle due criptomonete (bitcoin ed ethereum) che la precedono in capitalizzazione e quotazione.
Ma, se pure il futuro prezzo della valuta può essere di indiscusso interesse, ritengo che l’accoppiata RippleNet/moneta ripple meriti due osservazioni ulteriori e riferite a un futuro che non consideri il solo valore di quotazione.
È stato scritto che “ripple piace alle banche” perché il sistema di protocollo creato porterebbe a una riduzione dei costi delle transazioni finanziarie rendendo, oltretutto, queste ultime più veloci ed efficienti. L’affermazione è confortata dai numerosi accordi che l’Azienda Ripple continua a sottoscrivere con banche e money transfer. Sono, infatti, un centinaio gli istituti finanziari che utilizzano RipplePay e il numero sembra destinato a crescere rapidamente tanto da far pensare che le banche possano aver trovato un provvidenziale alleato che risolva uno dei problemi di innovazione tecnologica che gli istituti di credito sono obbligati ad affrontare.
A oggi le banche, per il trasferimento dei fondi internazionali, usano prevalentemente i pagamenti SWIFT che dal 1973 consentono scambi di operazioni finanziarie tra gli oltre diecimila istituti associati. I pagamenti SWIFT mediamente impiegano tre giorni per arrivare al conto di destinazione, ma, per alcuni Paesi e/o a causa dei fusi orari, i tempi necessari non di rado si allungano fino a sette giorni. I costi, non proprio irrilevanti, per il trasferimento dei fondi internazionali prevedono l’addebito di commissioni reclamate sia dalla banca nazionale e sia dalla banca estera in aggiunta a un’eventuale commissione valutaria calcolata sul valore nominale dell’importo.
Ripple, con l’utilizzo della tecnologia Xcurrent, consente di effettuare pagamenti internazionali in pochi secondi e a un costo medio di $ 0,0004 in commissioni di rete. Le operazioni di pagamento vengono eseguite utilizzando una semplice API (Application Programming Interface) che non richiede nessuna installazione di software. Nelle transazioni, servendosi della valuta XRP, si evitano, inoltre, costosi cambi tra monete fiat e si ottengono pagamenti pressoché istantanei.
Se la tecnologia Ripple “piace alle banche”, potrebbe diventare addirittura irresistibile per Autorità monetarie e Istituti centrali che troverebbero con il modello Ripple le stesse condizioni delle valute fiat senza dover stampare banconote. Si arriverebbe così ad avere una valuta di stato digitale che conserverebbe per le Banche centrali sia gli introiti da signoraggio e sia la possibilità di utilizzare gli strumenti di politica monetaria (es. aumento o diminuzione della quantità di valuta in circolazione).
Centralizzata, fiduciaria, non minabile, riservata a un solo ente per l’emissione e utilizzabile come strumento di politica monetaria; praticamente, escludendo la materialità, nessuna differenza con le valute fiat in circolazione. Se poi il modello Ripple si scrollasse di dosso quell’essere (tipico delle valute digitali) asset altamente speculativo e volatile, allora la strada per un eventuale utilizzo come valuta nazionale risulterebbe spianata.