03 dic 2017
Autore: prof. CARRANO Salvatore
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Non solo le parole, come scriveva l’autore di “Cristo si è fermato a Eboli”, ma anche le valute sono (state) pietre. È successo circa 600 anni or sono in una sperduta isola della Micronesia e queste pietre, pesanti fino a quattro tonnellate, sono state usate come moneta fino all’inizio del XX secolo. Con una forma circolare e un buco al centro, gli enormi dischi di calcare erano davvero difficili da spostare e, difatti, spesso restavano sempre nello stesso posto, anche se cambiavano di proprietà. Il trasferimento da un soggetto all’altro comunque non richiedeva la consegna materiale del bene perché bastava la semplice annotazione del passaggio di proprietà registrato da tutti gli abitanti dell’isola. Il metodo di riconoscimento della proprietà impediva a chiunque di potersi appropriare di un bene altrui perché tutti gli isolani sapevano a chi apparteneva la pietra e in più il sistema di registrazione metteva al sicuro da ogni rischio le negoziazioni.
La somiglianza con un metodo che alcuni ritengono sia una delle scoperte più rivoluzionarie degli ultimi tempi è davvero notevole. E chissà che il fantomatico Nakamoto non abbia preso spunto dagli isolani di Yap per creare la sua moneta digitale. Proprio a questo signore, infatti, viene attribuita l’invenzione della blockchain che ha dato la possibilità di creare nel 2009 il bitcoin. In realtà sembrerebbe che Nakamoto sia uno pseudonimo e l’inventore risulti tuttora sconosciuto ma, di fatto, dal sistema di registrazione a blocchi (la blockchain appunto) è nata la prima criptovaluta.
A ben riflettere questa moneta virtuale somiglia non solo alle pietre Rai, ma anche all’oro. Ha dei punti in comune con il metallo nobile per eccellenza che per tanti anni è stato il riferimento delle monete nazionali. L’oro appartiene a chi lo trova, non viene usato nei pagamenti, è un bene d’investimento ed è un valore decentralizzato da qualsiasi banca nazionale. Il bitcoin viene “scovato” dai “minatori” è scarsamente usato nei pagamenti, è utilizzato come investimento e non è controllato da nessuna banca centrale.
Un’enorme pietra, un prezioso metallo e adesso una moneta algoritmica generata da un software che, così com’è stato progettato, avrà creato entro la fine del corrente anno il 75% dei 21 milioni di bitcoin totali previsti. Viene generata nuova moneta quando un “miner”, processando blocchi di dati, risolve un complesso di istruzioni e come ricompensa riceve una determinata e variabile quantità di bitcoin. È un sistema che si autoregola e tara la difficoltà di risoluzione in modo da creare un blocco ogni certo numero di minuti che, inizialmente era fissato in dieci. Ogni quattro anni questo tempo raddoppia rallentando notevolmente il ritmo di creazione delle monete, tanto che la restante 25% della valuta richiederà ancora 120 anni per essere “scovata”.
Non è dato sapere ai comuni mortali chi detiene grosse somme di bitcoin perché i possessori sono soliti memorizzare una limitata quantità di monete per ogni indirizzo e, inoltre, acquisti rilevanti della criptovaluta spesso fanno capo a società non sempre ben definite. Comunque, si legge in rete che l’inventore (Nakamoto?) nel primo anno di mining ne abbia tenute per sé circa 1,5 milioni di unità; altre centosettantaquattromila sarebbero state sequestrate, per poi essere successivamente vendute all’asta, dall’FBI al mercato silk road (l’Amazon delle droghe).
Qualcuno sostiene che gli sconosciuti compratori delle criptovalute sequestrate al mercato silk road, siano tra i maggiori possessori di bitcoin. Viene da domandarsi se i detentori di grandi quantità di moneta digitale possano influenzare il valore della valuta con la più banale regola di mercato: vendendone o comprandone grosse quantità. Rilevanti offerte di vendita così come notevoli richieste di acquisto di valuta probabilmente non saranno le sole cause dell’oscillazione della moneta digitale, ma di certo non si può affermare che le criptovalute si caratterizzano per la stabilità della quotazione visto che per alcune di loro, e per i bitcoin in particolare, il valore è cresciuto a dismisura.
Sulla scia del successo dei bitcoin, sono nate oltre milletrecento valute digitali aventi all’incirca le stesse caratteristiche e le più conosciute (tra cui Ethereum, Litecoin, Dash e Monero, per citarne alcune), possiedono già un patrimonio netto disponibile sul mercato superiore a un miliardo di euro.
Per custodire le valute digitali occorre munirsi di un portafoglio (wallet) che consente di conservare, trasferire, ricevere e tenere conto delle transazioni effettuate. Il portafoglio è un software che una volta installato genera un indirizzo pubblico mediamente composto di trentatré caratteri. L’address è un personale codice identificativo che ha le stesse funzioni di un indirizzo di posta elettronica usato con paypal e può essere tranquillamente diffuso per effettuare le transazioni.
Facili da conservare, veloci e a basso costo nei trasferimenti, garantiscono oltretutto l’anonimato e la certezza della transazione. Le monete digitali sembrano avere tutte le caratteristiche per diventare la valuta del futuro, eppure autorità monetarie e grandi banche si mostrano caute e timorose a riconoscerne i vantaggi.
Qualsiasi tipo di moneta produce reddito da signoraggio e le criptovalute non si sottraggono a questo processo con la differenza, però, che il reddito prodotto dalle monete digitali non finisce nelle casse delle banche centrali ma ai minatori che risolvono i codici che ne proteggono la creazione. Inoltre, essendo ”l’emissione” delle valute programmata tramite apposito software, queste monete mal si prestano a essere utilizzate come strumenti di politica monetaria finalizzati magari al mantenimento della stabilità della valuta ma anche a un’eventuale svalutazione attuata con una massiccia immissione di nuova moneta. Saranno questi i motivi principali di tanto scetticismo e contrarietà nei confronti delle valute digitali da parte di governi, banche e autorità monetarie?