16 ott 2017
Autore: prof. CARRANO Salvatore
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Volendo condensare in uno slogan i contenuti salienti di Basilea 3, si potrebbe pensare a: “meno rischi, meno profitti e più capitali”. Se si analizzano i tre elementi, si percepisce l’idea di un accordo che ha l’obiettivo prudenziale di aumentare la sicurezza delle banche.
Il contenimento dei rischi è perseguito con l’obbligo dell’innalzamento del capitale commisurandolo alla quantità dei finanziamenti erogati e tenendo conto del coefficiente di ponderazione, della tipologia di prenditore e delle garanzie a tutela dell’istituto erogante.
Basilea 3 impone alle banche di accantonare un capitale adeguato per fronteggiare perdite impreviste e per garantire la solvibilità anche in situazioni di crisi finanziaria. Rispetto a Basilea 2, l’evoluzione 3 dell’accordo sui requisiti patrimoniali delle banche obbliga gli istituti di credito a una maggiore capitalizzazione che, a capitale invariato, si traduce in una riduzione della disponibilità di credito da erogare al consumo e alla produzione. L’inasprimento delle disposizioni in materia di requisiti patrimoniali secondo alcuni autorevoli studi comporta, a parità di common equity, una riduzione fino al 39% dei prestiti erogabili dalle banche. In sostanza, le banche per mantenere lo stesso livello di attività di intermediazione raggiunto, devono possedere una maggiore capitalizzazione. L’obbligo di elevare il rapporto equity/asset potrebbe indurre le banche a ridurre la quantità dei prestiti da erogare e tale decisione diventerebbe necessaria qualora le banche non avessero utili da trattenere o azioni proprie da vendere. Le banche che non riescono ad attrarre capitali dimostrano di avere scarsi profitti, ed è un po’ il cane che si morde la coda: il gradimento degli investitori si ottiene con la realizzazione dei profitti e per aumentare i profitti servono nuovi capitali.
La riduzione della quantità di prestiti da erogare provoca una stretta creditizia che rallenta i consumi delle famiglie e certamente non agevola lo svolgimento dell’attività d’impresa. Le banche per contenere la perdita dei profitti indirizzano i prestiti verso quelle aziende che assorbono meno capitale e offrono migliori garanzie sia in termini di redditività e sia in termini di rischiosità. E le PMI sono le prime a essere interessate dal “credit crunch” perché offrono redditività inferiori rispetto alle grandi imprese, presentano meno garanzie di solvibilità e soprattutto, essendo prevalentemente prive di rating, prevedono l’applicazione di coefficienti di ponderazione più alti.
Guarda caso dal 2008 a oggi più di centomila imprese medio-piccole sono fallite causando la perdita di oltre un milione di posti di lavoro e, inoltre, la stragrande maggioranza dei crediti deteriorati che affliggono i bilanci degli istituti di credito, proviene dagli affidamenti alle grandi aziende. Di conseguenza, istintivamente, verrebbe lecito e sacrosanto imputare alle disposizioni contenute nell’accordo conosciuto come Basilea 3 la colpa di aver causato la stretta creditizia e la conseguente fase di recessione dell’economia italiana.
Le disposizioni di Basilea 3, hanno prodotto sì una sensibile contrazione del credito erogato dal sistema bancario, ma al di là di qualsiasi ingannevole apparenza, non hanno contribuito alla recessione, semmai il Comitato è intervenuto per correggere delle misure precedentemente adottate dai vertici economici dell’UE che, attraverso l’ingente immissione di liquidità, garantivano sostegno alle banche e riduzione del costo del denaro per le imprese ma, come si è potuto constatare poco dopo, anche contrazione della produzione e del reddito.
Generalmente, uno dei principali motivi che spinge le banche a restringere l’offerta di credito deriva da una carenza di liquidità. Negli anni immediatamente successivi allo scoppio della recente crisi, la BCE ha offerto alle sole banche italiane liquidità per 255 miliardi di euro al tasso dell’1%. Questa considerevole massa di liquidità non è, però, stata utilizzata per finanziare le imprese e il consumo, ma è stata investita principalmente in tranquilli titoli di stato che garantivano un rendimento medio del 4%. Era il momento di alleggerire lo spread e le banche hanno ricevuto una vera e propria sovvenzione che le ha protette nella fase più acuta della crisi economica. Poi però la recessione ha azzerato il costo del denaro, l’investimento in titoli pubblici non era più conveniente e le imprese non avevano bisogno di finanziamenti perché i consumi erano crollati. A quel punto le banche, che fino ad allora avevano ben resistito agli effetti della crisi grazie alle “sovvenzioni” della Banca centrale, hanno inevitabilmente evidenziato l’esiguità dei profitti e le difficoltà a recuperare una sostanziosa parte dei prestiti concessi.
Basilea 3 ha introdotto delle disposizioni transitorie finalizzate ad accrescere i coefficienti patrimoniali delle banche mediante politiche di accantonamento degli utili e di aumento di capitale con la raccomandazione di non tralasciare il sostegno all’economia e dal 2011, anno di inizio del periodo di osservazione, il Comitato ha svolto, e continua a svolgere, un sistematico monitoraggio degli effetti che le disposizioni hanno prodotto e produrranno sul sistema creditizio e sulla crescita economica.
L’accordo di Basilea 3 è maturato proprio per correggere gli “effetti indesiderati” della “cura dei tassi bassi” e del mancato sostegno ai consumi e si pone gli obiettivi (dichiarati o reconditi) di ridurre il denaro in circolazione, pulire i bilanci delle banche azzerando gli NPL e attuare una silenziosa selezione naturale garantendo la sopravvivenza solo agli istituti bancari più sani.